Måneskin – “Teatro d’ira – Vol. I” (2021)

Tracklist: 1. Zitti e buoni 03:14 - 2. Coraline 05:00 - 3. Lividi sui gomiti 02:45 - 4. I Wanna Be Your Slave 02:53 - 5. In nome del padre 03:39 - 6. For Your Love 03:50 - 7. La paura del buio 03:29 - 8. Vent'anni 04:13

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Nati a Roma (Italia) nel 2016.

Pensieri di Claudio “Clandrix” Buselli

Chi l’avrebbe detto che nel 2021 una band di ragazzi italiani potesse trovarsi in alto nelle classifiche di mezzo mondo, oltre i confini italiani, oltre i confini d’oltremanica, oltre i confini d’oltreoceano… ma facciamo un passo indietro.

Damiano, Victoria, Thomas e Ethan: i Måneskin. Sappiamo tutti la loro storia, il loro trampolino di lancio con “X Factor” nel 2017, ma di solito molti artisti che escono da questi format spariscono un po’ come sono entrati, loro invece pubblicano il loro primo album “Chosen” (un ep) conquistando un doppio disco di platino.

Nel 2018 esce “Il ballo della vita” che li vedrà poi impegnati in un tour europeo con il tutto esaurito. Non sto qui a elencare i vari singoli estratti che hanno conquistato diversi dischi di platino.

Sanremo 2021, che vincono e che gli permette di accedere all’Eurovision Song Contest 2021 che li incorona agli occhi di tutta Europa e oltreoceano.

Ma non dilunghiamoci sulla cronologia andiamo alla ciccia.

Teatro d’ira – Vol.I”: questa è la vera bomba che realizzano e che li veste della loro vera personalità e libertà di espressione. La prima cosa che mi ha colpito è stata la scritta nell’album: “registrato live”.

Per chi non sapesse cosa significa vuol dire che quello che ascoltate è stato registrato direttamente mentre i ragazzi suonavano tutti insieme in una sala di registrazione, certo sicuramente c’è qualche sovraincisione e qualche aggiustamento in post-produzione, ma non è una cosa banale e non poteva essere diversamente per dei ragazzi così affiatati.

Di solito il mercato, purtroppo ormai mercenario, vede la produzione di album anche a distanza, ovvero uno registra una traccia in una sala di registrazione, poi la spedisce da un’altra parte dove registrano un’altra traccia e così via fino a concludere il progetto. Scusate ma io sono legato all’idea di “gruppo” e di suonare ascoltando gli altri componenti e ci tenevo a sottolineare questo dato.

Inoltre su tutti i brani i compositori risultano essere sempre tutti e quattro e nessun altro, anche questo non è poco.

L’album è registrato meravigliosamente, è cristallino e conserva bene le dinamiche che i quattro “de Roma” vogliono imprimere ai singoli brani. Suono mai impastato, puoi sentire bene i singoli componenti e apprezzare il loro feeling con lo strumento, compresa la voce di Damiano mai troppo avanti né troppo indietro, ma perfettamente amalgamata al contesto. Per cui plauso anche alla produzione.

Partiamo dalla prima traccia, quella che li ha resi veramente famosi: “Zitti e buoni”.

Già dopo la vittoria di Sanremo, ma soprattutto dopo l’Eurovision, sono arrivate subito le prime critiche sull’utilizzo di riff furbi o riutilizzo di cose già sentite. Scusate ma dopo Hendrix, Led Zeppelin, Deep Purple e via dicendo, qualcuno ha inventato qualcosa di veramente nuovo? Io credo che prendere le idee dai grandi lo facciano tutti, ma anche che trasformarle in qualcosa di proprio lo facciano solo i grandi.

Un po’ in tutto l’album si respira la voglia della band, incanalata nei testi di Damiano, di sfogarsi delle difficoltà che probabilmente hanno incontrato per arrivare a questo punto e credo che il fatto di essere in Italia e cercare di sfornare qualcosa che va da una musica d’oltreoceano ad un’immagine provocatoria e libera (sicuramente in controtendenza con i canoni ai quali siamo abituati) li abbia posti davanti a frasi tipo “ma dove andate…” o “ma volate bassi…”.

Ma il rock vuole la spavalderia altrimenti di che si parla ed a vent’anni fanno proprio bene a crederci: “scusami ma ci credo tanto che posso fare questo salto…”.

Il pezzo comunque è forte, suonato con energia e cantato con quel graffio che non è per niente scontato e banale da eseguire. Sicuramente il modo di cantare di Damiano, che immagino gli sia venuto naturale, può ricordare Chester Bennington dei Linkin Park, ma non è importante questo, è bello sentire come anche in italiano si può incanalare questa energia e trasformare le parole in “asce che tagliano la schiena”.

Si perché, sarà pure il fatto che internet ormai ha avvicinato tutti, però vedere video in cui non solo gli stranieri apprezzano la musica dei Måneskin, ma vogliono anche tradurre i testi e capirne il significato vuol dire che qualcosa di autentico arriva alle orecchie.

Coraline” parte con un intro di chitarra e voce in 12/8 che sottolinea già la drammaticità ed i dubbi di Coraline. Poi tutto si ferma e Thomas inizia il suo giro “sporco” di accordi che aprono il brano a tutta un’altra musica già col giusto crescendo, fino al bridge che ricorda un po’ i fraseggi di John Frusciante su “Californication”. Poi il graffio di Damiano si fa sentire fino al bellissimo assolo di Thomas, semplice ma di grande effetto (quelli che preferisco rispetto a mille note al secondo che non trasmettono nulla). Qui anche Ethan fa sentire di che pasta è fatto, le sue dinamiche alla batteria si fanno sentire eccome.

Poi il ritorno all’inizio chitarra e voce concludono questo triste viaggio di Coraline, per niente banale questa scelta artistica, quasi teatrale.

Lividi sui gomiti”: sarei curioso di sapere a chi le grida queste parole Damiano, anche qui si evince la voglia dei ragazzi e la consapevolezza di avere un’opportunità fra le mani per fargliela vedere a chi non ha creduto in loro o forse seguiva solo il dio denaro e non la loro essenza.

Anche qui la loro unione li ha resi forti: “però mi resta la mia strada, gli sguardi, tre amici non codardi”, insomma hanno i lividi sui gomiti e sono qui a cantarlo a tutti.

Ritmica che ti colpisce subito, dove le dinamiche qui la fanno da padrone, molte belle le parti morbide in cui Thomas accompagna probabilmente abbassando solo il volume al pickup della chitarra e tirando fuori dei fraseggi tipici della scuola Page, al quale sono sicuro si ispira molto, come vedremo più avanti.

I Wanna Be Your Slave”: è il brano che spaventa gli americani (insieme alla cover di “Beggin’” in testa alla Spotify Global Chart), si perché un critico americano li stronca subito scrivendo che il loro suono è vecchio e obsoleto e che preferisce la morte del rock se questo è quello che gli americani stanno apprezzando.

Io ho rispetto per tutti, soprattutto per chi gioca in casa e di rock ne capisce sicuramente, ma al signor critico chiederei allora come mai sono in vetta alla Billboard, la bibbia delle classifiche.

Signor critico il rock l’avete inventato voi e gli inglesi e nessuno vi leverà questa bandiera, ma poi anche il resto del mondo l’ha fatto suo e ci sta che qualcuno riesca a fare entrare nelle proprie vene quella linfa che da sempre alimenta il rock, che può essere a volte la rabbia, la frustrazione, il riscatto, l’ira, il sesso, la passione, il talento e tutto quello che è rock.

Direi pure che anche voi in America non è che state sfornando più tutti questi fuoriclasse (parentesi per i Greta Van Fleet, a mio avviso tra i migliori del momento e comunque sappiamo a che sound si rifanno…), anzi tante canzoni che sento su radio che trasmettono genere rock moderno mi lasciano molto a desiderare.

In questo brano c’è tutto ritmo, crescendo, esplosione, altro che sound obsoleto. Trovo che in tutto l’album la cosa più fantastica sia proprio la crudezza del suono. Pochi fronzoli qualche effetto, ma tanta, tanta grinta, forse questo impensierisce qualcuno. Oggi c’è la rincorsa alla tecnologia anche nella musica, dall’effettistica all’immagine e via discorrendo, ma a volte si perde il vero valore che è quello puro e semplice di suonare e creare emozione.

Come vedere Chris Cornell che con le infradito su uno sgabello e una chitarra acustica suona e canta “Black Hole Sun”: questo è quello che si sta perdendo e questi ragazzi forse lo stanno insegnando proprio a quelli che il rock l’hanno inventato.

In nome del padre”: che pezzo!

Dire che c’è un po’ di Rage Against The Machine penso sia palese, ma penso che un tiro migliore un testo così non poteva averlo. Qui Damiano libera il meglio di sé, quegli “ah ah” gridati con tutto il fuoco in gola danno proprio un senso di liberazione da quanti forse pensano che già si siano montati la testa o che hanno scordato da dove vengono: ”Ho scelto di essere uno, uno soltanto…” e ancora “il mio passato non me lo scordo non lo rinnego, colpisci forte tanto non cado, rimango in piedi”.

Sapere che si può “toccare il cielo e ritornare a mangiare asfalto”. Insomma credo che vogliano dirci che rimanere sé stessi sia proprio una religione da non tradire per questo “in nome del figlio e spirito santo”.

Qui c’è una batteria strepitosa e, anche se ancora non l’ho citata, Victoria ci fa sentire con tutta sé stessa il groove ed il feeling con la ritmica di Ethan e i riff di Thomas. Un basso distorto (forse Fuzz) che sapientemente usa in molti brani dell’album. La ragazza sa che, in particolare dal vivo, deve anche sostenere Thomas, soprattutto nei soli, per cui un basso più corposo è la scelta più ottimale.

Qui non si tratta di essere iper tecnici, ma di avere gusto musicale nel creare gli arrangiamenti e i ragazzi questo lo fanno ottimamente.

Qui ho risentito nel bridge di nuovo Thomas che prende dal glossario della bibbia di Jimmy Page (non copia sia chiaro), se volete un esempio provate a sentire “Scarlet” che i Rolling Stones hanno suonato insieme a Jimmy Page e sentite in che modo li accompagna.

For Your Love”: altro capolavoro questo funk-rock che inizia con un riff in sedicesimi di Thomas che apre ad una strofa in continua sospensione che si ripete per molte battute. Anche qui Thomas si ricorda di aver ascolta molto i Led Zeppelin, ma sempre col suo stile e soprattutto il suo suono.

Poi si va al ritornello in cui è apprezzabile la linea melodica della voce accompagnata all’unisono da basso e batteria.

Bellissimo il cambio di ritmo in cui Victoria la fa da padrona ridefinendo il pezzo, per arrivare allo spettacolare solo di Thomas e ritornare al ritornello e chiudere.

Thomas gigante: vi dico secondo me perché. Provate a fare mente locale e ditemi quanti assoli sareste in grado di canticchiare a memoria. Io credo che i suoi si stampino indelebili in testa e questo di solito lo fanno i grandi musicisti che mettono il gusto e l’emozione davanti alla tecnica. Certo che la tecnica serve, ma ragazzi questo a vent’anni ha un gusto pauroso, chapeau.

La paura del buio”: il successo è sicuramente qualcosa che può spaventare e forse è questo che vuole cantare Damiano a sé stesso davanti allo specchio. Il pezzo anche qui è molto efficace, un bell’intro di Thomas che riesce a fare poche note semplici ma che ti invitano già a pretenderne il seguito. Damiano che fa quasi il verso al reggae con una linea melodica in levare molto incisiva e metricamente non semplice, anzi aprirei una piccola parentesi proprio su questo suo modo di riuscire a dire con chiarezza i suoi concetti in una forma a tratti rap vecchio stile pur rimanendo in ambito rock, il che avvalora maggiormente il suo stile unico.

Il brano si sviluppa poi in maniera classica con strofa e ritornello. In quest’ultimo il bel cambio di marcia di Thomas che quasi mi fa pensare ad alcuni arrangiamenti di chitarra in stile Radiohead e poi ancora il colpo di genio. Di nuovo Victoria e Ethan, come ci avevano deliziato in “For Your Love”, virano su un nuovo groove che porta Damiano ad una linea melodica tutta nuova che conclude di nuovo con un altro colpo di genio: due battute finali di sola voce calda e graffiante al punto giusto… che dire, chapeau anche a Damiano.

Vent’anni”: se sei un chitarrista e stai leggendo questa recensione dimmi se appena hai sentito questo brano non hai avuto voglia di risuonarla subito tutta e capire alcune soluzioni sul manico, magari cercando anche il giusto riverbero e ambiente… scusate la debolezza ma a me è successo. Un po’ come quando vuoi rifare “Una canzone per te” di Vasco o “Stairway To Heaven” o “Little Wing”.

Anche qui Thomas sembra tornato dal futuro e forse non ha vent’anni ma suona da cinquantenne un altro assolo di quelli che canterai anche a stereo spento.

Il testo è chiaro e molto maturo: in un mondo affogato dalla finzione e dai social è facile perdersi soprattutto quando si è giovani, è il caso quindi di imparare subito da che parte stare “e sarai pronto per lottare, oppure andrai via”, ”e andare un passo più avanti, essere sempre vero, spiegare il colore a chi vede bianco e nero”, si perché ormai in quest’era digitale le sfumature non esistono quasi più.

In conclusione: gran bel lavoro ragazzi, sicuramente sarete in parte osannati e in parte disprezzati, ma questo di solito è l’onere del successo. Io intanto aspetto il secondo volume.

Singoli:

  1. Vent’anni

  2. Zitti e buoni

  3. I Wanna Be Your Slave

Highlights:

  1. Coraline

  2. In nome del padre

  3. I Wanna Be Your Slave

Componenti:

  1. Damiano David – Voce

  2. Victoria De Angelis – Basso

  3. Thomas Raggi – Chitarra

  4. Ethan Torchio – Batteria

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